Salto Cadorna, anzi no, scendo al volo e prendo le scale mobili.
Non c'è nessuno davanti a me solo i gradini che salgono con un leggero scatto e un tremolio meccanico ripetitivo e l'ultimo cade, l'ultimo cade, l'ultimo cade, mentre dietro di me uno spunta e poi un altro e un altro ancora.
Non ho mai capito perché il nastro nero va più veloce della scala. Lascio la mano sul nastro e aspetto e la sento trascinata in avanti e sempre più avanti, fino a quando la devo togliere per non inarcarmi in avanti. Non si deve giocare con le scale mobili, è una cosa che si sa. Chi non ha provato a risalirle all'incontrario? O a scendere più veloce di quanto salgano?
Quasi tutti, mi rispondo, imbecille, solo tu ci hai provato e qualche ragazzotto che come te si sarà guadagnato i graffi dei denti metallici che corrono in verticale sul gradino e che quando cade diventano, a piombo, come dei cortissimi e implacabili pettini che ti grattano via epidermide e fanno affiorare il sangue. Comunque alla fine ero riuscito a rimettermi in piedi e non lo avrei mai più fatto, come frenare con il piede sinistro, come avevo fatto a vent'anni al Parco Sempione alle tre di notte, e per fortuna, perché altrimenti…
Centrale. Gialla, Linea Tre. I cubetti di porfido che affiorano dappertutto con il giallo di ordinanza e il rosso degli sgabelli. Siamo sempre meno, e il mio appuntamento?
Mi siedo e mi lascio dondolare dall'abbrivio della partenza. Quanto devo andare ancora in giro questa notte?
Lei è ancora lì che annuncia: Zara, fermata Zara. Io proseguo, Dergano, Affori, cambio banchina, torno indietro, fino a Centrale, Linea Due, Verde, sedili a due a due, poi sedili a specchio e poi Cadorna, Linea Uno, Rossa, arrivo a Duomo. Adesso ho sonno, non vorrei, ma mi appisolo e sento solo le voci lontane come se fossero ovattate. Non sono voci sono monosillabi al telefono. Sì, sto per arrivare. Sì, ti aspetto al parcheggio. Ho la bici, non ti preoccupare. Domattina alle 9 puntuali, risate complici e un rumore indistinto che proviene dalla mia sinistra. È come un soffio, è un brontolare che mi sveglia dal torpore comatoso nel quale ero finito. Sta dormendo. E russa, piano. Ha uno strumento in grembo, una piccola maracas e c'è anche un'armonica e come una grancassa attaccata alla caviglia. Mi ricorderebbe Bert di Mary Poppins prima di saltare dentro i quadri che aveva appena disegnato con il gesso, prima che l'acquazzone se li portasse via tutti quanti. Ma è vecchio e non gli somiglia per nulla. Si sveglia di colpo mi guarda e ha l'aria di voler attaccare bottone, io giro la testa dall'altra parte. Non ho voglia di parlare, non ho voglia di sentire la mia voce, non ho voglia di emettere fiato nelle mie corde vocali e allora lui si gira da un'altra parte dove c'è un signore con la faccia tonda e i capelli a spazzola, una maglietta con una frase americana, dei pantaloni arancioni e delle scarpe da ginnastica nuove di zecca, fiammanti. Lo guarda e inizia a raccontare. Quello lo segue e annuisce, è evidente che capisce la metà di quello che gli viene raccontato, ma non ce la fa proprio a interrompere quel fiume in piena e d'altro canto come potrebbe? Non si fermerebbe per nulla al mondo il nostro Bert depresso, perché sta raccontando di quando era al manicomio e delle torture che gli infliggevano elettrodi compresi, prima che riuscisse a uscirne fuori, piuttosto malconcio a dir la verità e a cantare sempre e ossessivamente tre canzoni, sempre quelle tre, appisolarsi, poi svegliarsi e raccontare la sua storia. Facciatonda e capelli a spazzola continua ad annuire anche quando il nostro gli fa delle domande, il che provoca dispetto, si spazientisce e chiude con un machenevuoisaperetu e si rimette in bocca la sua armonica.